Non sappiamo voi, ma noi questo album lo attendevamo davvero da molto tempo, da quando An Harbor era ancora solamente Federico Pagani ed il suo progetto solista si materializzava in qualche live qua e là fra Piacenza e provincia (magari passando pure sottotraccia).
E allora dopo tanta attesa, ecco finalmente “May”, il primo suo primo disco. Otto tracce, nate molto tempo fa ma che durante prove, registrazioni e produzione del disco, hanno trovato nuova forma. Un lavoro che potete già ascoltare in streaming su Rockit qua https://goo.gl/Ew274K, che potrete comprare a partire dal 30 settembre, che sarà “live” a partire dal release party di domenica in Cavallerizza a Piacenza che aprirà il tour, e che noi vi anticipiamo intervistando per voi Federico.
Parto facendoti una domanda per cui non avrai una risposta: in quanti ti hanno chiesto “ma quando esce il tuo disco?!?”
Proprio non ne ho idea, ho perso il conto. E’ stato il tormentone degli ultimi due anni, ed in parte lo è tuttora. La gente ancora adesso, nonostante abbia lanciato il video di “Like a demon” e scritto ovunque della sua release, continua a chiedermelo. Anche a Piacenza, dove si sa cosa succede nel panorama musicale, mi chiedono ancora la stessa cosa “ma quando lo fai quest’album?!?!”, ma ormai è fatta, fra meno di una settimana sarà fuori!
Raccontaci brevemente questo “May”, magari partendo dal titolo….
Il disco ha cambiato titolo più volte fino a quando ad un certo punto qualcuno mi ha detto che forse i titoli che avevo in mento erano lunghi e allora ho detto “si, ok, facciamo un titolo corto e semplice”. May ha un sacco di significati. May è maggio in inglese, maggio vuol dire primavera e questa ritorna più volte in alcuni momenti dell’album, dentro infatti si trova uno “spring came to me” o ancora “june is the killer of young heart”. Poi maggio mi piace come mese: sei un po’ infreddolito ma hai già la voglia di uscire. Ma may è anche potere, voler essere, il voler diventare, e volendo May potrebbe essere anche il nome di una donna. In una sola parola non poteva esserci di più.
Le tracce sono 8, di inedito, veramente inedito, c’è poco…
C’è “Not made of gold”, che ho scritto perché sentivo che mancava un po’ la chiusura all’album, la chiusura di una storia. E’ un po’ particolare perché strano, senza una struttura classica, una vero e proprio punto alla fine di un discorso. Gli altri invece gli ho suonati dal vivo tante volte. Di nuovo c’è la veste sonora, passando da una acustica ad un tripudio di ogni altra cosa o quasi. Poi non ho aggiunto altro, anche perché sono molto nostalgico e il “4 da un lato e 4 dall’altro” mi piaceva molto. Tipo la A e lato B.
Dove è nata la volontà di trasportare un’idea iniziale del progetto An harbor, nel tuo primo album?
Il tutto è nato fra alti e bassi. Sicuramente dopo X-Factor e il tour che è venuto dopo, mi sono reso conto che andando dall’altra parte dell’Italia, mi fermavano per strada solo per dirmi bravo e chiedermi del disco. Da lì ho cominciato a pensare che un minimo di lavoro bisognava farlo, anzi, bisognava fare un disco con i coglioni. Un disco vero. E piano piano è scattata la molla oltre che per farlo, ma anche per farlo molto più strutturato di come si poteva pensare. Questo un po’ come razione verso chi mi aveva etichettato come “quello con la chitarrina” vedendomi solo come songsinger, e un po’ perché musicalmente sentivo la necessità di metterci dentro tante cose. Tante cose che mi piacciono.
Inizio e fine di quest’album?
All’inizio dell’album e di quello che sono musicalmente, prima di tutti gli altri c’è Springsteen. Appena dopo Greg Dulli. Lui più del Boss mi ha insegnato che si può contaminare. Fa cose tendenzialmente rock ma con tanto soul e black music. Poi Prince che non faceva solo una cosa, passando da Hendrix al funky al quasi dance. Oggi come oggi, ne parlavo recentemente, mi sembra più coraggiosa e a volte più sperimentale e più ricercata molta musica mainstream rispetto all’indie, che vorrebbe essere alternativo ma che si muove nel solito metro quadrato. Ad esempio Beyoncé col suo novo disco, Drake, Kanye West, tutta roba mainstream, ma nuova. Mi capita più spesso di avere una reazione sbalordita davanti a del pop che a dell’alternativo. Come la reazione davanti all’evoluzione di Tylor Swift.
E per quanto riguarda l’Italia, cosa ti ha influenzato ultimamente?
Quelle poche cose a cui mi sento affine, perché più di stampo internazionale, son Matilde Davoli, l’ultimo suo album mi fa impazzire, i Novamerica che fanno un indie pop a cui mi sento molto vicino e anche Birthh.
Sei in mezzo ad altre due esperienze musicali molto diverse una intima ed introspettiva (Le sacerdotesse dell’isola del piacere) e l’altra (Ants) che invece dello stare fuori fisicamente ed emotivamente, ne fa il centro di ogni cosa. Con il progetto An Harbor ti sembra di stare un po’ in mezzo alle due cose?
Si, si può dire che in mezzo ci sono io. Non saprei nemmeno come declinarla. Non ci avevo pensato. Di certo mi piace di questo disco che ha un lato intimista, che nasce come “chitarrina nella cameretta”, ed uno invece in cui c’è una ricerca del suono molto più aperta, molto più fruibile ed estroversa. Stare in quella via di mezzo, stare lì in mezzo mi piace molto.
Come ci raccontavi nella nostra ultima intervista di qualche tempo fa, An Harbor è un progetto, e di conseguenza come c’è stato un inizio potrebbe esserci anche una fine. E’ ancora così?
Per me è sempre così. A me piace fare mille cose diverse. Adesso ho in mano questo album e questi pezzi, ma chi lo sa che facendo una cosa molto diversa, magari fra un anno, mi chiederò se avrà ancora senso farla uscire sotto nome An Harbor. Sicuramente non ho la paura di chiudere un progetto nel momento in cui non sarà più quello che sentirò come mio. Senza farsi tante menate.
Quanto è maturato questo disco nel corso di prove e registrazioni?
Molto, ma la vera veste dei brani è questa. Molti la vedono ancora come “il pezzo era bello e invece hai voluto fare un’altra cosa…”, ma invece la versione ufficiale è questa qui, è questa che avevo in testa. Come contenuti sono sempre io, l’amore – l’odio – l’amicizia – il rock’n roll, però ci si deve aspettare una roba diversa, più contaminata. Perché è pop ma non è pop, è strano. Ha delle robe spiazzanti ma anche facili. Come stesura i pezzi non sono cambiati, sono sempre quelli solo che hanno messo il vestito della festa per fare la prima comunione, anzi il matrimonio.
Dopo il video di Like a demon, dobbiamo aspettarcene un altro?
Sicuramente un altro singolo uscirà, ma dato che c’è stato talmente tanto sbatti per fare questo, ci devo pensare bene. Però l’idea è quella e a me piacerebbe molto. E mi piacerebbe anche molto proseguire per quanto riguarda la parte video (il video di Like a demon lo potete vedere cliccando sull’immagine sotto. Ndr), ancora con Andrés Maloberti, lavorerei sempre e solo con lui
Proprio in Like a demon, si è “manifestata” la voce femminile che è entrata nell’album: Tight Eye. Come è nata la collaborazione?
Tutto molto semplice. Stavamo lavorando sul pezzo, sulle voci, e per come è venuto il bridge, molto sospeso, non mi veniva tanto bene, nè forte, nè piano. Cristiano Sanzeri mi ha detto che lì ci voleva una voce femminile. Io non ero convinto, poi però ho pensato che un featuring ci stava bene. Inizialmente ho sentito un suo pezzo su Fb e ho pensato semplicemente che fosse incredibile, una Lana Del Rey pop e vintage, molto elegante. Le ho scritto e anche se fa cose un po’ lontane dalle mie, è stata gentilissima e abbiamo lavorato benissimo insieme.
Però mi raccontavi che c’è anche un retroscena…
Ebbene si, perché prima di Tight Eye, avevo pensato ad un’altra voce femminile, cioè Maggie Rogers. La conobbi un paio di anni fa tramite una recensione su un blog. Era praticamente sconosciuta. Ho ascoltato le sue cose e sono impazzito a tal punto da inserire una sua cover in tutti i miei live. Purtroppo, ma meglio per lei, nel frattempo, prima che io pensassi a lei per il featuring, in Usa è diventata conosciutissima per aver lasciato a bocca aperta Pharrel Williams in una masterclass alla sua Università. Da lì le visualizzazioni sono scoppiate, è finita anche su Vogue ed è diventata un po’ irraggiungibile. Ma io sono molto, molto contento di quello che abbiamo fatto insieme a Tight Eye.
Tornando e chiudendo su questo May, che cosa rappresenta?
È sia un punto di arrivo, perché è stato il prodotto di due anni di lavoro, e lo vedo un po’ come il disco della vita, quello con dentro tutto. Dall’altro lato è sicuramente anche un punto di inizio. Il mio primo disco partendo da qui, non da X-Factor o dai vecchi live. Vorrei che la gente vedesse che An Harbor parte da qui, perché dietro a quello che si è visto, c’è ancora tanta altra roba.