Leonardo Lidi arriva per la prima volta a Piacenza, nella SUA Piacenza, come regista del Falstaff. Ne siamo contentissimi, anche se ci sarebbe piaciuto poterlo ammirare anche prima. Si perché, Lidi, pur avendo vinto nel 2016 il prestigioso premio UBU come miglior attore under 35, pur vedendosi aggiudicare nel 2017 il bando regia under 30 della Biennale di Venezia, pur avendo lavorato in numerose e prestigiose opere teatrali, a Piacenza non ha mai trovato posto. Ci chiediamo un po’ il perché.
Fortunatamente ci ha pensato Cristina Ferrari che lo ha voluto per la regia di quest’opera verdiana, il Falstaff che lo vede debuttare anche nella regia operistica.
Leonardo, oltre ad essere attore teatrale e cinematografico e regista teatrale adesso ti cimenti nella regia operistica, com’é avvenuto questo passaggio?
In modo semplice direi. E’ stata una richiesta della direttrice artistica della fondazione teatri Cristina Ferrari che, conoscendo il mio percorso nella prosa, mi ha chiesto di fare la regia di quest’opera. Opera nella quale gioco “in casa”. Il libretto di Boito è preso da due opere di Shakespeare, “le allegre comari” e due atti di “Enrico IV” che conosco davvero bene.
In questo nuovo ruolo di regia ha dovuto fare i conti con una cosa molto importante nelle opere: la musica.
Dopo aver studiato il mio adattamento, c’è stato l’incontro con la musica. Per me un incontro memorabile innanzitutto perché si parla di un mostra sacro che si chiama Verdi. Nell’incontro con la musica sono stato molto fortunato perché ho incontrato un cast di cantanti eccezionali e un direttore d’orchestra che, oltre alle sue incredibili capacità mi è stato molto, molto vicino. Fin dal primo giorno di prove ho avuto la possibilità di dialogare in tempo reale con lui su ogni passaggio.
La musica è entrata, per il mio modo di studio in un secondo momento, salvo poi che è tale la sua potenza, che non puoi non lasciarti guidare anche da essa.
Com’é il Falstaff di Leonardo Lidi? Hai cercato una rappresentazione “moderna” oppure aderente alla sua classicità?
Non ho cercato la modernità a tutti i costi. In generale penso che si debba fare i conti (sia nella lirica che nella prosa) con la nostra, intesa come pubblico, voglia di immediatezza. Pensa al fatto che oggi i video stanno tra i 90 e i 120 secondi. Non bisogna gareggiare con loro, bisogna cercare di combatterli con le armi proprie del teatro. Ho cercato quindi di non “appesantire la macchina”. Questa è un’opera che mi consente una certa dinamicità. Inoltre ho cercato di sfruttare l’unicità del teatro: creare un contesto che instauri un rapporto diretto tra attori e pubblico. Shakespeare scrive proprio in questa direzione. L’architettura in cui Shakespeare scrive i suoi testi, fa si che l’attore ( il cantante se pensiamo a quest’opera) è sempre in rapporto visivo con il pubblico. Più che ricercare una modernità a tutti i costi, che a mio avviso lascia il tempo che trova, la vera sfida è quella di tenere collegato il pubblico nel “tempo moderno”.
Quindi hai tenuto una impostazione classica dell’opera.
Base di tutto è stato tenere presente la conoscenza delle opere shakespeariane per non ridurre tutta l’opera nel cliché dell’eterna burla. Il testo è ben più profondo e si evince da diversi fattori: dall’ambientazione nel bosco nel terzo atto, ma anche dall’allegoria della maschera del cervo, animale sacrificale per eccellenza, quasi a simboleggiare il sacrificio di colui al quale è stata ispirata l’opera (Enrico VI infatti sembra dedicata a John Oldcastle mandato al rogo perché appartenente alla setta dei lollardi n.d.r.). Anche sentir gridare “patatrac” rumore che fa Fastaff quando viene lanciato dalla finestra nella cesta, ci fa immaginare le sue ossa che si sfracellano al suolo. E poi la musica. Non è certo sempre spensierata e divertente. Anzi, nella leggenda del cacciatore che si impicca ad un albero della foresta, ma anche nell’ultimo verso, quell’invito a tutti i “à tutti Gabbati”, che potrebbe passare per un inno alla festa, la musica è presente in modo molto cupo. E quindi il terzo atto, che di solito è una mascherata buffa, io lo vedo più un limbo tra la vita e la morte, tra paradiso ed inferno.
E poi c’è la parte scenografica, di costumi e di luci.
Di norma parlo in modo diretto con i miei collaboratori e poi lascio che si esprimano. A loro ho chiesto che fosse esaltato un termine per me importante: quello della “interscambiabilità”.
I personaggi Ford e Falstaff, così come le donne in modo ancora più definito, sono soggetti interscambiabili. Sotto l’aspetto scenografico quello che vedrete saranno due mondi separati che entrano ed escono uno nell’altro. In questo percorso hanno avuto un ruolo molto importante le competenze di Emanuele Sinisi per le scenografie, di Valeria Donata Bettella per i costumi e Fiammetta Baldiserri per le luci.
Che effetto fa entrare al municipale?
Sono felice di essere stato chiamato da Cristina Ferrari e contento di non essere stato chiamato solo perché “giovane regista”. Mi han dato in mano un grande titolo e un grande cast e ho cercato di esprimermi al meglio anche forte del fatto che negli ultimi anni ho lavorato in grandi teatri. Sono molto contento di questa chiamata anche se non mi “tremano le gambe” per questa prima: sono tranquillo nel mio lavoro, senza voler sembrare presuntuoso sono sicuro di quello che faccio. E’ comunque un grande regalo quello di debuttare alla regia di un’opera lirica proprio nella mia città. Di questo sono molto felice e spero che sia il primo passo di un’esperienza che mi piacerebbe ripetere.
Il futuro?
Torno a recitare che è una cosa che da un po’ ti tempo mi manca. Tra un mese sono al Teatro Stabile di Torino con la “casa di Bernarda Alba” e poi questa estate alla biennale di Venezia.