Cover stories: quando i Pink Floyd la mandarono in vacca

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La genesi di Atom heart mother, il quinto album dei Pink Floyd, il famoso “disco muccato”, è interessante. Nasce dalla nuova fase del gruppo in cui voleva smarcarsi dall’etichetta di band psichedelica beat underground e voleva esplorare nuovi lidi. Cosa che riuscì a fare in questo bellissimo disco dove il side one del vinile è interamente occupato dal brano che dà il titolo all’album.

Non potendo (e volendo) tralasciare i pezzi, oltre a quello che già in centinaia hanno scritto e detto, riassumiamo il disco in un breve passaggio di immagini, quelle dei 4 pezzi che consigliamo. Per prima, la cavalcata westeriana di Atom Heart Mother che si incastrerebbe bene in un film di Leone, poi la delicatezza di If e il momento nostalgia di Summer ’68 ripresa anche da De Andrè e PFM in Fiume Sand Creek, fino alla vera e propria colazione sonora di Alan’s Psychedelic Breakfast

Considerata la scaletta dei pezzi e la musica più prog che psichedelica, in copertina quindi niente più immagini colorate e acide, niente più distorsioni visive da astrolabio. Semplicità, ordinarietà e sobrietà. A questo scopo i quattro sguinzagliarono il loro amico Storm Thorgerson. Grafico visionario, artista, personaggio eclettico, un folle al pari di Syd Barret.

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Non fece altro che uscire da Londra con una macchina fotografica e cominciare a fotografare quello che trovava. Immerso nella bucolica campagna londinese di fine anni ’60 scattò quella che lui stesso definì “La foto definitiva di una mucca“. Il caro bovino che ci osserva perplesso (quanto noi) dalla copertina è uno splendido esemplare di razza frisona di nome Lulubelle III. Sul retro poi finirono tre sue amiche pezzate di cui una moccolante.

L’idea grafica ricorda un po’ quella della banana di Andy Warhol dell’omonimo Velvet Underground and Nico. Per Thorgerson bisognava colpire l’ipotetico cliente di un recordstore dell’epoca. L’effetto atteso era quello di varcare la soglia del negozio e tra un Abraxas, un Let it be  ed un Led Zeppelin III, ti trovavi una mucca malinconica e tranquilla che ti fissava da uno scaffale. Un “che cavolo ci fa una mucca qui!?” era inevitabile. “La mucca attirava lo sguardo più di quanto potessi sperare: era diversa perché così normale”. Sembra che Lulubelle III sia riuscita benissimo in questo intento.

 

Scritto da: Alessandro Freschi

Summertime In Jazz