Sta arrivando “Nel tempo di ogni cosa”! Intervista agli Stereo Gazette e a loro nuovo album

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Un lunghissimo caffè con gli Stereo Gazette. Un lunghissimo caffè insieme al nucleo centrale del progetto, Alessandro Gazzola e Raffaele Boledi, insieme a Filippo Schiavi, una delle new entry rispetto alla formazione iniziale, per un’uscita imminente, quella del loro “Nel tempo di ogni cosa”.
Ovviamente al centro dell’incontro c’è lui, il primo album completo della band che verrà svelato ufficialmente venerdì 13 al Baciccia, ma oltre a questo anche quello che è successo prima e attorno a questa uscita, l’evoluzione della band dal primo ep dal titolo “Il lato sbagliato” fino ad oggi con una nuova formazione ed una nuova consapevolezza raggiunta.

Quanto ci è voluto per arrivare a questo prodotto?

Tre anni di lavoro. Due anni per la maturazione delle canzoni, e tra una cosa e l’altra un anno di registrazione e produzione. È stato a settembre a 2016 che abbiamo cominciato a dire “dai, facciamolo!”.

Fa presuppore che ci sia stato un momento in cui quel “dai, facciamolo!” non usciva…

C’è stato un momento altalenante. Un momento in cui ti chiedi se fermarsi o se c’è ancora la voglia di scrivere e produrre. Ad un certo punto ci siamo guardati in faccia io e Ale (questo è Raffaele. Ndr), abbiamo deciso di entrare nel processo creativo e dopo un po’ abbiamo pensato che non potevamo lasciare i pezzi scritti a metà.

Cosa è cambiato da “Il lato sbagliato”?

Il primo disco era un lavoro meno maturo e con pezzi saltati fuori ancora sotto forma adolescenziale, che poi noi abbiamo cercato di rendere più credibili possibile in fase di registrazione. Per questo album invece i pezzi che stavano nascendo erano già fatti in un altro modo, anche solo nell’ascoltarli li abbiamo sentiti subito più addosso.

Mi avete anticipato che questo disco, anche nel modo in cui è stato creato, è volutamente molto attuale….

Si perché è nato veramente “in cameretta” (in particolare in quella di Raffaele), nella semplicità, ossia con chitarra acustica, piani, batterie “finte” e pc. Un po’ come nascono la maggior parte delle produzioni di adesso. Non abbiamo voluto vedere la sala prove fino a molto avanti nella produzione, seguendo un procedimento moderno. Abbiamo seguito più un approccio da autori che da band, anche perché prima c’eravamo noi due e poi è arrivato Filippo, ma senza batterie e cose varie: eravamo noi, un Mac ed un programma di editing.

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Un procedimento che vi ha portato in sala di registrazione con Cristiano Sanzeri!

Abbiamo registrato con lui perché lo consideriamo il migliore. È una persona che ha lavorato e lavora ad un livello molto alto a livello nazionale, una professionalità di caratura che ha già tanta esperienza sia live sia come registrazione e sound engineering. Anche dal lato produzione ha cambiato molto il nostro modo di vedere il lavoro. Lo consideriamo un elemento aggiunto cha ha un occhio diverso e moderno, con la capacità di imprimere la sua professionalità sul disco in maniera forte, che era quello che volevamo.

Quanto è cambiato il prodotto prima e dopo la registrazione?

In realtà non tantissimo perché Cristiano ha rispettato la natura dei brani. Noi gli abbiamo dato dei pezzi che erano già abbastanza pronti per essere registrati, degli ingredienti già di discreta qualità ma slegati, e lui ne ha tirato fuori un piatto gourmet. Questo era quello che volevamo da lui: che ci prendesse per mano in un lavoro che noi non conosciamo ancora bene, e lui lo ha fatto lavorando quasi come un produttore.

Non abbiamo ancora detto nulla dell’etichetta!

Ovviamente siamo ancora nella famiglia Orzorock! Da loro abbiamo avuto carta bianca in tutta la fase di produzione e nell’ultima fase è intervenuta per il supporto promozionale e di diffusione. Da Orzorock arriva sempre tanta passione senza pretese, mettendo insieme tante realtà diverse sotto lo stesso marchio. Oltre a questo, nonostante sia una etichetta indipendente locale, ci sono margini di espansione su eventi e canali di comunicazione. Un blocco solido a Piacenza che suona in questo modo.

Arriviamo alla band. Dall’ultima volta che ci siamo visti, ci sono stati dei cambiamenti, giusto?

Si, oltre alla parte produzione che abbiamo detto prima, c’era quella live che doveva cominciare a nascere anche insieme alle esigenze di registrazione di alcuni suoni e strumenti. Lì abbiamo avuto qualche problema perché eravamo rimasti noi due, è arrivato Filippo ma mancavano ancora chitarra e batteria. Ci è voluto un grosso lavoro ma siamo stati fortunati. Per la chitarra abbiamo cercato un po’e poi abbiamo trovato il jolly in Roberto Selvatici che ha anche registrato le chitarre nel disco e che ha veramente sposato la causa arrivando al punto di esserci nei live finché potrà farlo. Sul fronte batteria avevamo un numero uno, Riccardo Dallagiovanna, che però non potrà più esserci nei live, ma nonostante questo la sezione ritmica dell’album l’ha fatta lui. A sostituirlo ci sarà Gabriele Gnecchi, che suona bene, ci piace e si impegna davvero tanto. Questa è la configurazione di oggi e speriamo che sia quella con cui poter fare anche altre cose oltre a questo “Nel tempo di ogni cosa”.

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Adesso, senza esagerare, un po’ dei pezzi ne dobbiamo proprio parlare. Allora, già dalla prima canzone, “Canzone per me”, esce un suono con influenze elettroniche ed un suono pop molto attuale, era quello che volevate? È un po’ il pezzo simbolo dell’album?

Sicuramente a livello testuale riassume le altre. Era quella che volevamo ed il singolo che volevamo fare uscire, soprattutto come messaggio, infatti il nostro primo singolo sarà proprio questo e sarà anche il primo video, girato da Niccolò Savinelli. Per quanto riguarda la produzione, volevamo che andasse in questa direzione, che uscisse rock ma non più di tanto, con una bella traccia elettronica. È uno dei pezzi su cui abbiamo lavorato un di più per renderlo attuale. Racchiude tutto l’album anche se manca un pò la parte rock che si ritrova in altri pezzi, però c’è sotto un giro di chitarra con un’atmosfera che dà l’idea di tutto il disco.

Poi arriva Naufragio, altro pezzo buono per un singolo, troviamo la feat con OtherBrother. Come nasce il pezzo e la collaborazione?

Voleva essere un testo un po’ politico ma sapendo di non essere molto capaci, non volevamo farla in un modo troppo smaccato. Noi scriviamo sempre testi un po’ pesanti e qua invece volevamo fare un racconto. Una metafora che parte dalla citazione del Va pensiero per fare il nostro quadro dell’Italia che ci sembra sia alla deriva. Il pezzo già nei primi ascolti mancava di qualcosa e ci è venuto naturale pensare all’introduzione di una parte diversa, una nota più movimentata, così abbiamo pensato agli OtherBrother come realtà più adatta, e sapevamo che avrebbero trovato le parole giuste con cui entrare nel pezzo.

In mezzo troviamo un pezzo di Sistema solare: Plutone e Mercurio. Due pezzi che sonoramente sono molto diversi, quasi una riflessione a metà del lavoro…

Le abbiamo volute mettere insieme come a formare un nucleo di brani con due titoli che colpiscano anche se non pensati per quello. Pezzi molto personali con un discorso dei pianeti ben preciso: Plutone molto lontano dal sole e Mercurio invece che è fra quelli più vicini. Plutone è un viaggio interiore per scavare a fondo negli abissi, ed un allontanamento da tutto. In Mercurio invece si vuole accorciare le distanze nei rapporti, è una ricerca dell’abbraccio, un riavvicinarsi al sole come ad un aspetto positivo delle nostre vite. Poi Mercurio ha anche il significato che viviamo nella società più connessa dell’Universo e nonostante questo le connessioni fra di noi sono molto difficili. Anche la scelta dei suoni non è banale, Plutone è più fredda e Mercurio invece non ha nulla di elettronico, ci sono chitarra acustica, elettrica e la percussione.

Subito dopo arriva “L’odore di nuovo” che accelera rilanciando tutto l’ascolto!

È stata una scelta: creare un momento tranquillo e poi la botta. Arriva da un vissuto, dovevo (Alessandro) andare a fare spesa, ero in tangenziale, e avevo addosso un fortissimo senso di disagio e mi chiedevo se fosse una cosa che sentivo solo io. Forse è un po’ adolescenziale, meno impegnata delle altre, ma sentivo che nel disco ci poteva stare.

Per tutta la lunghezza dell’album si viaggia sulla sottile striscia fra il rock e il pop. Tenervi in bilico fra queste due cose è un gioco che vi piace fare o è un prodotto che vi siete trovati di fronte?

Secondo noi è una cosa naturale che deriva dalla musica che amiamo, che ascoltiamo e che ci ha ispirato determinati modi di scrivere e di cercare il suono. Strizziamo l’occhio a qualcosa di inglese, siamo vittime degli anni 90 e anche se siamo curiosi in tutti gli ascolti, vengono fuori le nostre basi musicali, come se fosse stato un disco fatto per tirare fuori un suono, non per costruirlo. Un po’ come uno sculture che tira via il superfluo ed emerge il pop, il rock, l’elettronica, rivelando il nostro sound. Pensiamo sia riconoscibile facendo capire chi sono gli Stereo Gazette.

Comunque, arrivando alla fine, si conferma un trend di testi, quasi tutti, che tirano sul malinconico. Come lo spiegate?

Ma perché un po’ quello che siamo noi. Non è un momento, è uno state of mind. Siamo persone che hanno a volte delle incazzature, dei momenti malinconici e a volte poetici. Certo, in questo disco non si sente l’euforia che può scrivere un ragazzino ventenne che esce a fare casino, abbiamo 30 anni e di un questo il disco ne risente. È un album che si apre con tematiche di rabbia, non adolescenziali ma di pancia, passa attraverso alcuni pezzi-fotografia e passaggi riflessivi, e che si chiude con un buon auspicio. Sono pezzi a tratti più profondi e tratti più cantautorali, ma che comunque possono essere capiti da chi ha la nostra età perché vengono da un vissuto personale, dalla necessità di accorciare alcune distanze, dal rapporto con la famiglia, fino alla ricerca di noi stessi in un mondo che ci fa perdere la bussola.

Summertime In Jazz