OtherBrother: il progetto in coppia di T-Flow e Suez è diventato un album

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OtherBrother è l’album omonimo di due fratelli Matteo T-Flow Zerbi, già voce nei jack Folla, e di Andrea Suez Zerbi. È uscito il primo marzo scorso in download gratuito, ma dopo pochi giorni, vista la richiesta, i ragazzi hanno pensato bene di fermare la cosa e passare al supporto fisico. T-Flow, classe ’91, lo conosciamo già perché è sulla scena piacentina già dalla metà degli anni ‘2000, perciò, dopo il live al Baciccia di presentazione, abbiamo incontrato l’altra parte di OtherBrother Andrea “Suez”, per parlare di questo progetto, proseguimento naturale della prima esperienza dal nome ManAtWork.

Come e quando è nato questo progetto?

Tutto nasce dal progetto ManAtWork nel 2013, che è durato un paio di anni. Era costruito senza un’idea ben precisa e oltre a questo lui in particolar modo era impegnato in altre cose, su tutte quella con i Jack Folla. Quell’esperienza però è stata solo il primo step e nel 2015 abbiamo voluto fare un passo avanti creando OtherBrother, evolvendoci, cambiando e allargando il raggio d’azione della nostra musica.

Come siete cambiati nel passaggio da ManAtWork a OtherBrother?

Prima eravamo molto sullo stereotipo della musica da strada hip hop, ma nel tempo abbiamo visto che il nostro genere stava cambiando e allora abbiamo cominciato a metterci dentro anche della house e della trap e dal nostro lato abbiamo pensato di smettere di fare le cose come le facevamo prima, cambiare un po’ anche noi. Poi trovando Deville (Alessandro D’Alessio), il nostro produttore romano, è stato lui a cominciare ad inserire dei suoni molto elettronici e alla fine del lavoro ci siamo trovati con tanti stili diversi, dal reggae fino alla dubstep, passando per il pop. Se ci guardi in faccia pensi al rap, poi invece andiamo dalla disco alla trap.

Da quanto ho capito Deville è stato centrale per il vostro album…

Direi proprio di si. Noi cercavamo un produttore che ci facesse 12 strumentali, lo stavamo cercando su siti e su Facebook, ma poi vengo a conoscenza di un suo remix di Higuain di Enzo Dong, l’ascolto e da subito mi è piaciuto tantissimo. Soprattutto perché ha saputo rifare quel pezzo in versione dubstep. Allora lo contatto e da subito è super disponibile, ci siamo trovati subito ed in 15 giorni avevamo tutto il materiale. Oltre a questo ci ha fatto anche il master.

Quanto ha modificato la vostra idea iniziale?

Principalmente eravamo noi che dicevano “questo si e questo no”, lui ci ha dato una mano soprattutto sui pezzi hip hop. Questo perché lui da subito si è adeguato a quello che volevamo fare noi e da lui abbiamo avuto solo feed positivi. Non è facile trovare una persona che pubblicizza e spinge un prodotto andando oltre alla semplice produzione.

E invece voi stessi avete cambiato l’idea dei pezzi durante la fase di produzione e registrazione?

Qualche pezzo è venuto fuori esattamente come era stato pensato, per altri invece è stato diverso. Ad esempio “Domare”, il singolo dell’album, è rimasto quasi uguale alla prima idea, altri invece sono cambiati soprattutto in base al beat. Questo perché è evidente che non sempre sei ispirato al 100% e perché non sempre è facile adattare un testo che hai pronto su un beat nuovo, però abbiamo visto che i pezzi più difficili da concludere sono stati anche quelli che sono venuti meglio.

Cosa troviamo dentro al vostro, primo, album omonimo?

Abbiamo cercato di parlare di tante cose, ogni pezzo è a sé, ci sono molti concetti dentro, quello principale è come viviamo noi la vita, tante volte parlando delle situazioni in cui ci sentiamo deboli. In Domare c’è il rialzarsi sempre e non mollare mai, prendendosi il domani. Poi un pezzo sulla scena musicale di oggi in cui diciamo che è molto facile fare musica ma è tremendamente difficile tutto quello che viene dopo. Per noi questo album è un biglietto da visita che dice chi siamo.

Quanto è cambiata la vostra musica in un periodo di grande rinnovamento della scena rap/hip-hop italiana?

Dipende dai pezzi. Tornando ancora a Domare, questo è un pezzo che all’inizio facevamo addirittura a cappella perché tocca un tema complicato, poi è cambiato un po’ con l’arrivo del beat su cui lavorare ma poco. Altri invece sono stati stravolti ma non dalla moda del momento, non usando per forza l’autotune ma solo per farlo suonare in un modo ben preciso. Come i pezzi più trap che però hanno poco a che fare con quelli che si sentono in giro, usando un concetto po’ strano, quasi un gioco un po’ stupido all’interno del pezzo. Abbiamo voluto giocare un po’ con queste cose nuove.

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Tu, Suez, essendo più giovane di tuo fratello T-Flow che già si è fatto conoscere nel panorama musicale piacentino, da cosa sei stato influenzato?

Le influenze maggiori sicuramente sono arrivate proprio da mio fratello e allo stesso tempo da Trifo. Ancora prima di fare un mio pezzo, chiudevo le rime a mio fratello e a Trifo. È nato tutto con loro. Ricordo un giorno ad un live alla Lupa in cui vedevo che la gente si fermava per ascoltare cosa succedeva, questo mi ha fatto pensare che quello era ciò che volevo fare. Ed oggi questo è ancora più forte perché c’è molto schifo in giro, cose che ti fanno pensare alle difficoltà, ed invece per me andare ad un evento vuol dire che per il tempo di una birra o di qualche pezzo, riesci a pensare solo a cose belle.

Ed invece le tue basi musicali quali sono state?

Sicuramente il rap americano al primo posto, Eminem su tutti mi ha formato molto ed è quello che ho ascoltato di più. Poi i primi di Fibra che pian piano le ho imparate tutte a memoria, ma anche i Dogo. Poi più avanti quello che mi ha influenzato molto è stata Tech9 e la Strange Music. Quel tipo di musica me la sono portata dietro nei testi che ho scritto, molto stretti e veloci che però adesso tipo extra beat, che però, anche perché me lo hanno sottolineato in molti, ho cambiato nel tempo.

Oggi invece quali sono i riferimenti?

Adesso ascolto di tutto, il rap e il rap-pop di oggi, anche se un po’ meno quello italiano. Mi piace moltissimo Dargen anche per i testi molto sensati. Non mi piace la canzone che dice dieci volte la stessa cosa, ma invece mi piacciono i pezzi con cose molto concrete e chiare. Ascolto molto rock e elettronica perché ho capito che c’è da imparare ovunque nella musica, anche ascoltando cantare Pavarotti c’è qualcosa da imparare anche se in un genere così lontano come il nostro.

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Com’è lavorare tra fratelli?

Sicuramente un pro è che so come ragiona lui e lui sa come ragiono io. So che li piace una cosa e lui sa cosa piace a me. Ma anche un contro perché sapendo che ci sono gusti diversi a volte ci si ferma un po’ e non sempre ci si trova, anche se poi alla fine il pezzo esce sempre come vogliamo tutti e due. Lo facciamo per noi e lo facciamo per far ascoltare alla gente un concetto e anche se a volte fra di noi è una battaglia, alla fine il risultato è come lo volevamo e infatti siamo molto contenti di come è uscito questo album.

Parliamo un attimo della grafica.

Il logo è stato disegnato da Nana Octopus già due anni fa sull’idea del camaleonte. Un animale in cui ci rivediamo perchè si mimetizza nel mondo anche se magari non si riconosce in esso. Poi con Flavia Iepureanu abbiamo lavorato insieme fianco a fianco ed in una giornata le idee erano già chiare e in tre giorni abbiamo fatto tutto.

Un’ultima domanda sulla scena piacentina, come la vedi?

Vedo la scena migliorare. Poi su quello che succede sui vari artisti, sarebbe una stronzata dire che siamo tutti amici perché ovviamente non è vero, però mi piace molto il movimento che si sta creando. Prima era “andiamo a fare serata perché non c’è niente da fare”, adesso invece è “andiamo là perché c’è la serata”. Poi adesso ci sono anche tante cose belle, come ad esempio l’Alley Oop, però è in generale che ho visto un miglioramento generale rispetto a prima.

Summertime In Jazz