10 anni “Così in fretta”: vi presentiamo il nuovo album della Klondike

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Lo hanno presentato in anteprima sul palco del Riposo di Augusto pochi giorni fa, e ora ve lo raccontiamo un po’ anche noi. Stiamo parlando di “Così in fretta”, il nuovo album della Klondike crew, targato Alastor Records, registrato – mixato – masterizzato al Tabaki Studio da PrezBeat.

Un album di cui l’etichetta Alastor Records si è detta già molto soddisfatta e orgogliosa (anche perché sono già finite le prime copie fisiche ed è già in ristampa) di aver prodotto e che abbiamo conosciuto meglio tramite le parole di Mucci Bravo, che insieme a Mill Gates e NLS forma il trio hip-hop, raccolte proprio nel backstage dell’anteprima rivergarese. Eccole.

La prima traccia inizia con un “è da un po’ che non vedo…”. Evidentemente fra di voi vi siete rivisti, e cosa è successo?

È successo che abbiamo espresso proprio quella parte, quel momento, in cui si cominciano a perdere un po’ di vista gli amici. Abbiamo voluto sottolineare che, in mezzo agli altri nomi che sono usciti durante la registrazione, ci siamo rivisti fra non solo come unione artistica, ma anche come amici. Il non beccarci per tanto tempo e poi ritrovarci per riparlare di quello che è successo, tra virgolette, in gioventù, fino ad arrivare ad oggi e accorgersi che tutto è passato così in fretta.

Questo in mezzo a percorsi musicali scissi l’uno dall’altro. Come li avete uniti?

Fondamentalmente già dall’inizio io e Nico siamo partiti da due generi diversi, con Millo che fa da collante per riuscire ad unire tutte le cose. Siccome Nico viene da un hip hop francese, segue la trap&soul ed è quello che lo rispecchia di più, come si sente in “Je ne sais pas”, fa una parte che va molto su questo genere e la fa davvero bene, e lì rende al massimo per essere un pezzo italiano. Io invece sono un tono più cantautorale con un lessico meno street ed urban. Perciò le differenze c’erano già all’inizio e anche con produzioni soliste in mezzo, è stato solo un ripartire.

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Da qua: come siete ripartiti?

Siamo ripartiti da quello che aveva già fatto, da No money one problem, con molte idee scartate in precedenza e che abbiamo ripreso in mano. Non è stato assolutamente più difficile fare il secondo album rispetto al primo, anche perché poi con una persona esterna come Prez (PrezBeat. Ndr) è stato lasciato più libero Millo, in modo da affinare le sue tecniche e più tempo per la musica ascoltata rispetto a quella mixata. Quella di metterci nelle mani di Prez è stata una scelta vincente, lasciando a lui una grossa parte della gestione della produzione e ha lasciato più liberi noi di concentrarci sulle nostre parti.

Tornando al francese che ritorna, tutta farina del sacco di Nic?

È qualcosa che lui si è portato dietro dalle sue origini francesi e usare quella lingua e quelle melodie lo mette sicuramente nella situazione migliore per tirare fuori le sue qualità. Lui non renderà mai bene come quando entra nella trap&soul, lui ascolta quelle cose e ne è molto influenzato, infatti dà il 120 per cento su quel genere e, anche staccandosi dalle nostre cose, deve continuare su questa traccia.

Il titolo prende il nome di un pezzo: “Così in fretta”. Perché proprio questo?

È stato scelto solo dopo, perché prima cerano altre idee che non sono andate in porto, poi abbiamo capito che il pezzo con un significato più importante era proprio Così in fretta. Rispecchia anche l’uscire con dei pezzi nuovi per rimanere molto “freschi”, infatti abbiamo fatto tutto in fretta ma bene, anche dagli ultimi sound per le ultime tracce sono usciti forse i pezzi migliori, anche perché la frequentazione in studio era ormai rodata e “Dal futuro” e “Portobello”, che sono state le ultime, si sono sviluppate con un flow ed una metrica forse migliori rispetto alle altre e sono quelle che suonano più internazionali.

La domanda è scontata: diteci qualcosa su questi 10 anni che sono passati e che ritornano nell’album.

Parentesi molto larga e potremmo parlarne per i prossimi 10 anni. Sia come sono cambiate le persone, le mode, la musica, l’approccio ad essa e oltre a tutto questo. Il fatto è che è cambiato molto di più il mondo in questi 10 anni rispetto a come era cambiato nei 20 anni che li hanno preceduti. Il web prima non contava così tanto nella musica e negli ultimi dieci anni invece ha stravolto tutto anche qua. Come la musica anche tutto il resto, però da artista non è facile vederla cambiare e stare dietro alla gente, però a noi in qualche modo ci piace più di prima.

Un cambiamento di cui avete parlato ovviamente anche in termini personali…

Non c’è più la stessa voglia di vedersi fra le persone come c’era solo qualche anni fa, oggi basta una app, però avere sempre un approccio virtuale è molto povero. Si vede nelle discoteche, dieci anni fa se non avevi la scarpa giusta non entravi, oggi vedi le peggio cose pur riempirle perché c’è meno flusso. Poi è un discorso di “momenti”, adesso che potremmo fare quello che vogliamo, perché adesso il “giusto” non esiste più, ci siamo trovati con più possibilità di prima ma siamo nati nell’epoca sbagliata.

Non possiamo non parlarne: anche per voi è arrivata la trap. Quanto è stata una scelta e quanto è stata una esigenza?

L’esigenza della trap nasce con l’altro album, che andato un po’ lungo e nel frattempo la trap è arrivata. In quel periodo era cambiato il gusto della gente e del rap in generale. Prima lo abbiamo scelto per rivolgerci a quel mondo dove adesso va di moda, quando abbiamo cominciato abbiamo capito che ci veniva ancora meglio del nostro hip hop classico. Lo abbiamo fatto inizialmente per seguire un filone, non neghiamolo, tutti lo fanno ma a differenza di molti noi non lo mascheriamo, e avendo esigenza di cambiare genere ci siamo trovati a dare di più.

Ma non è che un girono scopriremo che, almeno a livello nazionale, la trap ha veramente funzionato solo con Gali, Sfera Ebbasta e pochi altri?

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Quello è sicuro, quando finirà questo filone si ritornerà ai 90 bpm e li saluteremo tutti. Loro sono talenti e i maestri fondatori di questo genere, loro funzionano con questi flow, ma finito questo momento ci saranno altri artisti nuovi e diversi.

Domanda scontata ma ineludibile: la Diletta del pezzo, è proprio lei?

È ovviamente una canzone tutta per lei, per Diletta Leotta. Qualcosa si può traviare nel pezzo, però lei centra evidentemente ed è un po’ entrata nelle vite di molti, sicuramente nelle nostre, e dedicargli una canzone era il minimo per ringraziarla.

Like tattici, la sesta traccia dell’album, ci porta al mondo social, un argomento sempre florido. Per il mondo rap e hip hop, il social è un veicolo oppure è di più una risorsa per scrivere?

Facebook è la più grande etichetta discografica del mondo ed è sbagliatissimo. Questo perché qualsiasi artista può fare una campagna pubblicitaria con pochissimo, è immettere altri contenuti dove ce ne sono già tantissimi, sullo stesso piano di tanti altri, crea problemi. È il numero di contenuti che rende impossibile la valorizzazione di una cosa o dell’altra. Poi la gente preferisce guardare le compilation dei gattini al pianoforte o gli incidenti in macchina e ascoltare una canzone, magari di un emergente, non c’è più voglia. Poi, in questo caso, ma anche in altri, si, è stato una risorsa partendo dal fatto che quando devi dare un bacio, mica puoi darlo su Facebook, “Like tattici” è una protesta e una critica verso questa perdita del gusto verso la vita vera.

Dal punto di vista musicale, qua suona un po’ lo stile Samuel Heron. È così?

Sicuramente è un grandissimo artista a cui però non ci siamo ispirati perché lo abbiamo scoperto dopo e solo in un secondo momento abbiamo un po’ ricollegato il pezzo alle sue sonorità. Su questo pezzo in particolare, avere due personaggi come Prez e Millo che conoscono la musica giusta (anche se sono stati bastardissimi durante le registrazioni) ha fatto in modo di seguire alcune scelte e far uscire tutto perfetto e preciso. Abbiamo mandato giù qualche rospo ma la critica è stata fondamentale, anche quando ci è stato detto “fa cagare, cambiate tutto”, io mi chiudevo subito in me stesso, ma per stupirli, e gli ho stupiti.

Poi “Ocio” (in featuring con Crees) scopriamo che oltre all’underground della periferia, c’è un’altra sotto cultura diversa da questa, è così?

C’è perché si sente sempre dire di “vengo dalla periferia” e “dal palazzone”, il fatto è che anche io vengo da lì, ma non ho mai rotto il cazzo a nessuno. Io vengo dal Peep però non l’ho mai sottolineato. Anche perché a volte non lo vuoi far sapere, non lo vuoi sputare fuori, a volte te ne vergogni e non dirai mai che vieni dalla strada. Secondo me chi viene da lì non fa uscite del genere così facilmente. E poi se tu hai soldi per fare dischi, non hai fatto brutto…

Je ne sais pas, sembra la chiusura anticipata del disco. Uno sguardo di difficoltà e disilluso dopo aver cantato alcuni scorci del passato invece più bello. È appunto una chiusura su questo momento o solo un passaggio?

Si, doveva chiudere il disco, ma avendo fatto Portobello, con una chiusura più figa dicendo che si va appunto là a fare un giro, abbiamo cambiato in corsa. Abbiamo scelta una chiusura un po’ più leggera, anche se tante cose del disco portavano a Je ne sais pas, il cui senso dice che è più facile farsi prendere dalla nostalgia che dall’allegria. Con questo pezzo raccontiamo anche che non è tutto bello, che sembriamo sempre allegri e spensierati ma anche noi abbiamo un lato un po’ oscuro.

Summertime In Jazz